Sono trascorsi nove mesi da quando abbiamo iniziato a lavorare al gioco da tavola “Chi è l’asso?”. Introdurre nelle scuole uno strumento ludico per l’apprendimento della grammatica italiana, materia fra le più ostiche per i nostri alunni, per noi è sicuramente una sfida. Oggi il gioco è pronto e inizia a entrare nelle scuole, non senza pregiudizi da parte di alcuni docenti, ma sicuramente non senza entusiasti sostenitori. La didattica ludica, infatti, è uno strumento di lavoro dal quale solo chi ci crede può ricevere benefici e soddisfazioni. Scendere dalla cattedra per giocare con i propri alunni richiede un investimento emotivo, una fatica intellettuale (e fisica), un’energia vitale e positiva che non è necessaria durante la lezione frontale, quando l’interlocutore più loquace con cui ci si imbatte è la lavagna. Questo elogio dell’edutainment non vuole essere una contestazione della didattica tradizionale e della lezione frontale, tutt’altro. Chi scrive è ben consapevole che il momento dell’aula-laboratorio va obbligatoriamente affiancato al momento dell’aula-classe. L’aula-classe, la fase della trasmissione di contenuti insomma, crea i contesti di riferimento, gli scenari entro cui organizzare le conoscenze dichiarative; l’aula-laboratorio, il regno del metodo e del fare, consente di adoperare tali scenari di riferimento per rafforzare le conoscenze procedurali e metacognitive e produrre un’acquisizione del sapere che dura nel tempo. Perché tutto ciò sia reale, occorre essere motivati. Non ci riferiamo esclusivamente (e come è ovvio) alla motivazione degli alunni, ma prima di tutto alla motivazione dei docenti. La didattica ludica funziona quando l’offerta didattica proviene da insegnanti motivati, che non si lasciano impaurire dalla fatica, dagli iniziali fallimenti, dalle lunghe ore necessarie ad affermare e diffondere una metodologia. Bisogna aver seminato per raccogliere e aver giocato per vincere. Chi insegna per passione sa che la sfida della scuola non è un gioco che si fa tanto per partecipare: è un gioco che dobbiamo vincere se vogliamo che i nostri alunni diventino uomini e donne competenti.
Quando abbiamo iniziato a ragionare sul gioco, sulla sua ragion d’essere, sulla sua spendibilità nel contesto scolastico, lo abbiamo fatto in risposta a innumerevoli richieste che ci provenivano direttamente dai docenti che incontravamo come corsisti nei progetti PON. Durante tali corsi di aggiornamento ci è sempre stato richiesto di proporre metodologie alternative, ma facili da gestire con gli alunni. L’apprendimento cooperativo, piuttosto che il problem based learning o la mediazione sociale andavano offerte in maniera operativa. “Basta teoria!” è stata la frase più sentita negli ultimi anni. A scuola serviva uno strumento pratico, facile da adoperare e già pronto per l’uso. Nemmeno le schede operative di lavoro erano abbastanza operative, né le esercitazioni laboratoriali abbastanza laboratoriali. “Chi è l’asso?” vuole essere la risposta a questa esigenza di praticità. Mentre i docenti ci chiedevano strumenti di lavoro pratici, gli alunni, durante i i più svariati corsi, tutti improntati sui principi di didattica laboratoriale, si divertivano a sfidarsi in attività di comunicazione, di scrittura, di mediazione sociale. La sfida è uno strumento di motivazione eccezionale. Qualche insegnante la teme, ritenendo che non sia sano stimolare la competizione in classe, dato che fuori dalle mura scolastiche i ragazzi vivono immersi nella competizione, con tutte le conseguenze negative che ciò comporta. Ma il tipo di sfida che qui si propone è una sfida dalla valenza educativa. Perché una competizione a scuola risulti allo stesso tempo motivante ed educativa, deve essere impostata su criteri etici, di correttezza, di altruismo, di cooperazione. Ma facciamo un esempio tratto dal nostro gioco. La casella “Giornata della creatività” richiede alla squadra che vi capita delle abilità creative, di esercizio della fantasia. Le prestazioni che il gruppo è chiamato a svolgere non sono valutabili in maniera assoluta e inequivocabile, ma richiedono da parte di chi le giudica un notevole livello di interpretazione. In questi casi non ci sarà una prestazione assolutamente giusta e una sbagliata, ma una prestazione più o meno positiva. Saranno i gruppi avversari a dovere giudicare (dando il KO o viceversa l’OK) secondo il loro senso di giustizia. Il docente affida a loro la responsabilità di un leale arbitraggio. Responsabilizzare l’alunno e offrirgli l’opportunità di esercitare lealtà e comportamento etico, è sicuramente un aspetto apprezzabile della sfida.
Fuori dalle specificità di “Chi è l’asso?”, in questo contesto si vogliono promuovere gli ineguagliabili benefici della didattica ludica. Un nostro carissimo amico e punto di riferimento pedagogico, Tino Maglia, ci ha detto: “Il gioco è la cosa più seria che c’è”. Riteniamo che ciò sia vero. Il gioco è il modo più naturale di imparare. C’è anche un’altra faccia della medaglia: pensiamo alla teoria dei giochi. Essa ci insegna che con il gioco si decidono le sorti di intere popolazioni. L’importanza di sapere giocare e di pianificare azioni e strategie è evidente. Giovanni Freddi, esperto di didattica, afferma: “La lingua è il più straordinario e raffinato gioco di regole, creato dal gruppo e messo a disposizione del bambino”. Infine Bruner cita la moratoria della frustrazione in riferimento alle potenzialità motivazionali del gioco. L’alunno, cioè, lontano dalle dinamiche tradizionali dell’interrogazione, è in grado di esprimere se stesso e le proprie abilità liberamente, producendo risultati migliori, non falsati dagli stati d’ansia e dalle paure. Per queste ragioni e per tante altre che non possono esaurirsi in questo articolo, le scriventi sostengono da anni l’efficacia della didattica laboratoriale e ludica, ritenendo fondamentale che i docenti si spendano sul metodo prima ancora che sui contenuti, nonostante le difficoltà che ciò comporta, specie in tempi amari come quelli che stiamo vivendo nel bistrattato mondo della scuola. Chiudiamo il nostro primo intervento su Grammagiò con un augurio di buon lavoro a tutti coloro che operano nel settore della formazione e con l’esortazione a sperimentare, a non perdersi d’animo e a vagliare tutte le criticità dei paradigmi scientifici in cui poniamo il nostro lavoro, affinché esse vengano superate o sorpassate da nuovi possibili paradigmi.
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