mercoledì 7 ottobre 2009

L'arcaica voce dello straniero (a cura di Laura Bonasera)

Eschilo. Sulla scena dell’Agamennone, Cassandra è muta. Seduta sul carro che l’ ha trasportata fino alla reggia, luogo dove il re e lei stessa saranno tra poco assassinati. E non sembra udire le parole che le rivolgono il corifeo e Clitemnestra.
«Forse come una rondine conosce solo un’ignota lingua barbara»- commenta la regina. «Se non comprendi le mie parole - continua - e non intendi, fatti capire non con la voce, ma con le tue barbare mani!».«Sembra che costei abbia bisogno di un buon interprete - le fa eco il corifeo - pare una bestia selvaggia appena catturata». «O forse è pazza e ascolta solo il delirio della sua mente! - conclude sdegnata la regina - non mi abbasserò a gettar via altre parole».
Agli occhi, o meglio sarebbe dire, alle orecchie di Clitemnestra, Cassandra oscilla, dunque, tra lingua comprensibile e lingua incomprensibile. Utilizzare il termine barbaros non significava, infatti, affermare che una persona parlava una lingua sconosciuta. Significava piuttosto, che questa, stava semplicemente storpiando quella greca. La prigioniera Troiana è una rondine, «una bestia selvaggia». Il suo linguaggio è barbaro come barbari sono perfino i gesti delle sue mani. Ma Cassandra è veramente una pazza, come vorrebbe la regina? No, è semplicemente “una straniera” che non comprende la lingua in cui le parlano e, a sua volta, ne parla una che gli altri non capiscono. Cassandra è un paradigma della diversità, e non lo è per il suo abbigliamento, i suoi tratti somatici, o il modo in cui si comporta, ma per il suo silenzio. In piedi, su quel carro, la prigioniera Troiana rappresenta la più drammatica delle alterità: quella vocale.
Quando si presenta, infatti, lo straniero non è soltanto avvolto da vesti insolite, non ha solo pelle, occhi o viso di diverso colore rispetto ai nostri: è soprattutto prigioniero di una “voce” che non ci appartiene e che lo separa irrimediabilmente da noi. Ma è poi veramente una voce la sua? I Greci dubitandone, hanno spesso concluso che la vocalità dello straniero assomigliava piuttosto al grido di un animale, al cinguettio di un uccello o al farfugliare sconnesso del balbuziente.
Il fatto è che lo straniero è difficile da “pensare”. Sembra così simile a “noi”, eppure parla in modo incomprensibile, è identico e diverso nello stesso tempo. In quale categoria si può infilare un soggetto del genere? Visto che trovarne una appropriata è faticoso, meglio assimilarlo a qualcosa che si conosce di già: all’animale, ad esempio, oppure all’essere umano menomato, inferiore, mal riuscito.
Proprio come accade a Cassandra, anche se il suo non costituisce di certo l’unico caso.
Le profetesse che davano i responsi oracolari a Dordona, in Epiro, venivano chiamate col nome di «colomba». Secondo Erodoto, la causa era da ricondurre alla loro origine egiziana e dunque alla loro diversa lingua, o forse al fatto che quando parlavano davano l’impressione di non proferire parole, ma di cantare. Inoltre, lo stesso Erodoto, descrivendo gli Etiopi Trogloditi come coloro che nella corsa sono i più veloci fra gli uomini, non mancava di definirli in base a due parametri: il come parlavano e il cosa mangiavano. Raccontava, infatti, che questi si nutrivano di serpenti e di lucertole, e quando parlavano usavano una lingua che non somigliava a nessun altra: stridevano, infatti, come fossero pipistrelli. Siamo, così, passati dalla tenera immagine delle colombe ai ben più sgradevoli ed inquietanti volatili. Oltre ai Trogloditi, per i Greci esisteva anche un’altra categoria di “persone” che squittiva invece di parlare: i morti. È Omero che li descrive così, come ombre vane che svolazzando nell’Ade lanciavano strida. Chi ha perso la luce della vita, ha perso per sempre anche il linguaggio. L’articolazione del linguaggio, quindi, ha ceduto il posto ad un miserabile squittìo. Altre volte, invece, i Greci attribuivano allo straniero non la vocalità della bestia, ma quella del balbuziente: essere umano parlante sì, ma dalla lingua difettosa. Se non fosse stato balbuziente, insomma, se fosse stato sano e normale, lo straniero avrebbe parlato come noi.
Pensando al contesto odierno, non ci ricorda un po’ il “vu’ cumprà” dalla fonetica zoppicante che cerca di convincere ad un acquisto, o il farfugliare parole bisillabe da parte dei bambini cinesi alla scuola elementare?! Prigioniero di una voce che non ci appartiene, allo straniero tutt’oggi viene fatta indossare la maschera di Tartaglia, e in lingua altrui cade ed incespica laddove, nella propria correrebbe più spedito di un Etiope. A noi, futuri facilitatori d’apprendimento linguistico, l’arduo compito di “eliminare” la maschera!
Laura Bonasera
cfr. Maurizio Bettini, La voce dello straniero, in La Repubblica, martedì 14 novembre 2006, pag.49

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