Affermava Wittgenstein. Ne sono ben consapevoli quanti si trovano in contatto con una nuova società d’accoglienza; per questi, apprendere una nuova lingua non è solo utile, ma soprattutto doveroso. Imparare una lingua in situazione migratoria è molto di più che saper comunicare, significa entrare a far parte di una comunità non solo linguistica, ma soprattutto sociale.
La paura di non essere accettati, unita al dolore per la lontananza dalla propria terra, alimenta il riserbo in chi si sente straniero ed è consapevole di essere visto estraneo. Ciò può indurre l’apprendente a rimanere sulla soglia della nuova lingua. Egli, costretto dalle circostanze, imparerà a produrre i messaggi senza mai condividerne i riferimenti espliciti. Questo non deve essere sufficiente né per l’apprendente, né per l’insegnante. Non bisogna, infatti, trascurare il gioco insito nell’invenzione linguistica e il gusto d’imparare a usare le parole in modi inediti. Perché questo possa avvenire è necessario che il clima nel quale si sviluppa l’apprendimento della L2 sia d’apertura e di curiosità reciproca.
Insegnare la propria lingua a uno straniero è un’opportunità di ricerca linguistica ed etnografica, ma soprattutto un confronto con le diffidenze e gli stereotipi trasmessici. Studiare gli altri, infatti, diventa un modo per conoscere noi stessi, per proporre nuovi interrogativi, per sperimentare.
Cristina Arena
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