La mia prima ed entusiasmante esperienza di lavoro diretto con bambini per la didattica dell'italiano mi ha vista protagonista del progetto-laboratorio denominato LAPOSS – Una scuola a misura di bambino...anche migrante III, promosso nelle scuole elementari e medie di Catania nell’anno accademico 2006/2007, coordinato della Prof.ssa Sardo e del Prof. Todaro (rispettivamente docenti della Facoltà di Lettere e Filosofia e della Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Catania). Il LAPOSS[1] è un Laboratorio di Progettazione Sperimentazione ed Analisi di Politiche Pubbliche e Servizi alle persone, promosso dalla Facoltà di Scienze Politiche che si propone dal 2002 di confrontare idee per l’elaborazione e la realizzazione di progetti finalizzati a consolidare i collegamenti fra ricerca scientifica e città, mondo del lavoro e delle professioni, delle istituzioni e delle comunità.
Il laboratorio interdisciplinare che ho frequentato ha proposto un percorso di educazione linguistica rivolto ai bambini che usano l’italiano come seconda lingua e frequentano le scuole della nostra città. Obiettivo principale era quello di ottenere un innalzamento della motivazione degli alunni attraverso l’uso di codici espressivi vicini al loro mondo e di strumenti audiovisivi e multimediali per l’acquisizione dei principali nuclei del sistema grammaticale italiano, cioè si partiva dall’ortografia e dalla suffissazione per arrivare ai verbi. Nelle attività è stata privilegiata la tematica della narrazione, vista come snodo centrale su cui incentrare i percorsi di educazione interculturale e linguistica, e il gioco, visto come filo conduttore attraverso il quale il bambino riesce a scoprire le potenzialità della lingua e dimentica che sta imparando qualcosa.
Nelle classi – una prima e una seconda elementare – del C. D. “Sante Giuffrida” di Catania ho fatto il mio ingresso coordinando un gruppo di sei ragazze provenienti dalla Facoltà di Lettere e di Scienze della Formazione con le quali abbiamo organizzato l’attività didattica di vari argomenti: l’errore di ortografia (causato nei bambini stranieri, e non solo, dalla confusione spesso presente nell’uso corretto di gl/l, h, c/q, z/s, c/cq, p/b, t/d, doppie/scempie, essere/avere e dell'apostrofo), la suffissazione e la differenza tra nome e verbo.
Operando con classi differenti ho potuto notare le differenze di intervento necessarie a seconda dell’età degli studenti: i bambini di prima elementare sono ancora molto piccoli e hanno molte difficoltà nella lettura di un brano e soprattutto negli argomenti di cui ci siamo occupate noi, mentre i bambini di seconda sono autonomi nella lettura e molto veloci nello svolgimento degli esercizi, ma hanno comunque bisogno di qualche intervento di correzione. Prima di entrare in classe ho organizzato e realizzato con le altre ragazze del gruppo il fascicolo che poi avremmo dovuto consegnare ad ogni bambino con tutto il materiale utilizzato negli incontri. Prima di entrare nelle classi eravamo già a conoscenza della presenza di alunni non italofoni in esse e abbiamo avuto modo di documentarci sull’insegnamento ai bambini stranieri: di conseguenza abbiamo snellito le unità didattiche create adeguando l’insegnamento al ritmo e alla necessità dei bambini e cambiando continuamente attività: siamo riuscite in tal modo di catturare a lungo la loro attenzione.
Tutti i bambini hanno sin dal primo istante imparato i nostri nomi e ci chiamavano “maestra”, ma per un migliore rapporto di cooperazione io dicevo loro di chiamarmi solo per nome cosicché ho reso il lavoro come un gioco e non come un vero e proprio esercizio perché, come tutti sappiamo, un bambino messo davanti a una prova che sarà poi oggetto di valutazione entra automaticamente in soggezione. I bambini con cui abbiamo operato erano 48 (24 in prima e 24 in seconda) e di questi soltanto due erano bambini stranieri: frequentava la prima elementare una bambina della Florida e la seconda un bambino di origini cinesi. E’ particolare la condizione di quest’ultimo in quanto è l’unico della famiglia a parlare italiano infatti le maestre ci hanno detto di avere enormi difficoltà nella comunicazione scuola-famiglia.
Durante i vari incontri ho avuto modo di esaminare – sebbene suoni abbastanza forte come termine – questi due casi. Al primo incontro con la classe ho riscontrato che la bambina frequentante la prima elementare aveva sull’argomento trattato le stesse difficoltà di tutta la classe, mentre il bambino cinese mi ha particolarmente colpito in quanto è stato il primo fra tutti a capire l’esercizio e finirlo. Quando mi ha fatto vedere di averlo finito senza il mio aiuto ero abbastanza sorpresa e così gli ho detto di proseguire il lavoro leggendo la storiella per intero e, dopo averla capita, farne un disegno o colorare le immagini che trovava nel fascicolo nell’attesa che gli altri finissero e che noi avremmo cominciato la spiegazione, ma in quel momento ho capito la difficoltà del bambino: non sapeva leggere! Per un attimo ho esitato nel credere che fosse vero, ma poi ne ho avuto la conferma e così mi ci sono dedicata cercando in qualche modo di insegnarglielo e cercando di creare quello che mi ero comunque prefissata, cioè un rapporto diverso tra insegnante e alunno che consentiva uno scambio tra me e il bambino in modo da fargli capire che lui non è diverso rispetto a tutti noi.
Nel terzo incontro in cui era previsto fra le varie attività il gioco del mimo, ho riscontrato un comportamento diverso invece fra le due classi: è vero che sia in prima che in seconda c’era delusione da parte della squadra perdente, ma è anche vero che in seconda c’era più cooperazione fra i bambini della stessa squadra; invece in prima i bambini cercavano di prevalere sulle bambine un po’ più timide e quindi si creava più confusione.
Carmen Oliva
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